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Il ricordo di “un uomo mite e buono” – Convegno venerdì 19 ore 18.00
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<La nostra società sta attraversando un periodo di crepuscolarismo politico causato da appannamento morale e assenza di luminosi punti di riferimento umani.
Il patrimonio ideale e l´esempio politico di Aldo Moro sono una ricchezza ed un modello che non può essere disperso.
In occasione della ricorrenza dei 55 giorni del sequestro e dell´assassinio di Aldo Moro e della sua scorta avvenuta nel 1978, a Ripa Teatina venerdì 19 marzo 2010, presso la Sala Polivalente Comunale in via N. Marcone 42, alle 18.00, il Circolo del Partito Democratico organizza un incontro per ricordare la figura e le idee dello statista italiano.
Verrà proiettato il film-inchiesta di Carlo Infanti “La verità negata” ed a seguire una tavola rotonda a cui parteciperanno Carlo Infanti autore e regista del film e Maria Fida Moro, primogenita del presidente D.C. assassinato il 9 maggio del 1978.>
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ALDO MORO
Aldo Moro nacque a Maglie, in Puglia, nel 1916 e meglio di chiunque altro seppe condurre la propria attività politica all’insegna della moderazione, del dialogo e della ricerca del compromesso e dell’accordo tra le diverse parti politiche.
Fin dai tempi dell’Assemblea Costituente Moro applicò il dialogo e la ricerca di convergenza tra le parti in causa nella sua opera politica.
Alla Costituente rappresentò la Democrazia Cristiana di cui era stato eletto deputato e si fece promotore delle istanze più solidali del gruppo vicino alle posizioni di Giorgio La Pira e di Giuseppe Dossetti; era il “personalismo cattolico” per cui il ruolo e la funzione dello Stato erano da vedere nel rispetto della persona umana: lo Stato era in funzione dell’uomo e del cittadino e non viceversa.
L’opera del giovane Aldo Moro fu di straordinaria utilità per l’evoluzione e la buona riuscita dell’Assemblea Costituente.
Fin dalla fine degli anni ’40 Moro ricoprì importanti cariche pubbliche politiche e di governo: fu sottosegretario, ministro ed infine segretario generale organizzativo dello “scudo crociato” dopo la disfatta fanfaniana nel secondo decennio degli anni ’50.
Dalla segreteria di Piazza del Gesù, Moro iniziò a tessere una sottile ragnatela di peculiari rapporti politici il cui compito principale era il contribuire, pur mantenendo inalterato il ruolo fondamentale della DC, allo sviluppo della democrazia italiana.
Moro, uomo di potere e di governo, capiva i limiti ed i disagi del sistema politico e sociale della Repubblica italiana, della salvezza e dello sviluppo dell’Italia repubblicana era sicuro a patto che esso avvenisse all’insegna del dialogo tra tutte le forze politiche democratiche e tutte le parti sociali ed economiche legittimate alla partecipazione a tale processo di convergenza democratica.
L’elemento cardine e lo spirito della politica morotea consistevano nel progressivo e lento “allargamento delle basi della democrazia” italiana coinvolgendo e legittimando tutte le forze politiche democratiche e figlie della Resistenza componenti “l’arco costituzionale”.
Ciò doveva avvenire senza colpire o minare la centralità democristiana, che nell’ottica di Moro era vista come elemento base per la salvezza del sistema; la DC era “condannata a governare” per il bene del nostro Paese e della nostra Democrazia.
In nome di tale interesse supremo Moro cadde come un martire, martire della civiltà e delle proprie idee, alle quali fu fedele fino alla fine proprio come altri due famosi Martiri, questi però della fede, a cui sembra giusto affiancare lo statista pugliese: San Thomas Bechet e San Tommaso Moro (mai nessuna omonimia fu più appropriata!).
La politica morotea diede i suoi primi frutti all’inizio degli anni ’60 quando l’allora segretario democristiano si fece portavoce, dopo l’esperienza tambroniana del 1959, della “apertura a sinistra”, ossia del coinvolgimento dei socialisti del PSI di Pietro Nenni, che dopo i fatti d’Ungheria del 1956 si erano allontanati dai comunisti rompendo l’unità d’azione con il PCI ed imboccando la strada dell’autonomismo, prima, con i governi presieduti da Fanfani, nell’area della maggioranza di governo, poi, con i governi presieduti dallo stesso Moro, l’ingresso di ministri socialisti nell’esecutivo.
Moro diede al suo centro-sinistra un’impronta più moderata nel campo economico e sociale rispetto all’esperienza fanfaniana, ma fu all’avanguardia per quanto riguarda gli equilibri politici.
Il centro-sinistra subì un duro colpo dal tentativo di colpo di stato del generale Giovanni De Lorenzo (Piano Solo) che pose fine alla fase propulsiva di tale formula politica di governo.
Tappe fondamentali dell’incontro tra democristiani e socialisti furono i congressi dei due partiti, rispettivamente a Firenze ed a Napoli ed al teatro La Fenice di Venezia, l’incontro tra Nenni e Moro al residence della Camilluccia ed infine la convenzione degli economisti della sinistra democristiana di Pasquale Saraceno a San Pellegrino.
L’incontro tra Nenni e Moro doveva riprendere il filo interrotto di un dialogo mai nato tra don Sturzo e Turati, unica possibilità , nel 1922, di sbarrare il passo alle camicie nere di Benito Mussolini.
Finita la spinta propulsiva del governo con i socialisti vi fu la bufera del 1968 con la contestazione studentesca e l’autunno caldo del 1969 con le lotte operaie.
Aldo Moro fu uno dei pochi politici a capire la portata storica di quegli eventi che, forse, egli stesso aveva contribuito a provocare, avendo addormentato, dopo il 1964, il centro-sinistra convincendo i socialisti a rinviare le riforme strutturali del sistema, riforme che tanto stavano a cuore a Riccardo Lombardi ed ad Antonio Giolitti, “a data da destinarsi”.
In risposta a tale ondata impetuosa di richieste di innovazione del sistema e della vita italiana, il moderatissimo Aldo Moro formulò una nuova teoria politica: il progressivo incontro con il Partito Comunista allora guidato da Enrico Berlinguer.
Ciò doveva avvenire in tre differenti e successive fasi: astensione di tutti i partiti dell’arco costituzionale, quindi compresi anche i comunisti, su di un governo monocolore democristiano; successivo voto favorevole dei sopracitati partiti nei confronti del medesimo governo ed infine la partecipazione diretta di esponenti di tutti i partiti dell’arco costituzionale ad un nuovo ed innovativo governo.
Le prime due fasi (astensione e voto favorevole) di tale programma politico si realizzarono realmente e Moro le diresse in qualità di Presidente della DC, la terza fase, invece, non si ebbe mai: per impedirla menti e braccia crudeli la soffocarono nel sangue dello stesso Moro, che la avrebbe dovuta guidare dal Quirinale, essendo il candidato naturale dei partiti democratici alla successione del Presidente della Repubblica, che proprio nel 1978 vedeva scadere il proprio mandato, Giovanni Leone nell’oneroso ed onorato compito di ricoprire la Somma Magistratura dello Stato.
Ancora oggi nella vita politica italiana c’è il ricordo di quella immane tragedia; mai la vita pubblica repubblicana fu così duramente scossa: aleggia tuttora il fantasma di via Fani.
In una calda primavera di vent’anni fa si consumò l’evento più tragico della storia della Repubblica italiana: un gruppo di terroristi composto da brigatisti rossi, dopo averne trucidato la scorta, rapì Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, e, dopo più di un mese di prigionia, lo uccise causando una ferita nel tessuto democratico del Paese che non è stata più sanata.
Breve e sintetica analisi storica-politica degli eventi precedenti all’omicidio del leader DC e delle conseguenze che tale atto ebbe nella vita del Paese.
Le elezioni del 1976 avevano visto l’affermazione del PCI di Enrico Berlinguer che era giunto a sfiorare il sorpasso sullo storico avversario, la DC in quel momento guidata dal moroteo Benigno Zaccagnini: furono le elezioni dei due vincitori.
I comunisti si facevano portavoce di richieste di rinnovamento della politica nazionale e furono i primi ad affrontare la denuncia della “questione morale”, ossia della disinvoltura con cui molti politici agivano.
All’inizio degli anni ’70, a seguito del colpo di stato reazionario effettuato in Cile dal generale Pinochet, Berlinguer si era fatto promotore di un accordo di sistema tra le grandi culture politiche di massa: comunisti, cattolici e socialisti; il “compromesso storico”.
I principali interlocutori del leader comunista furono Moro ed il leader repubblicano Ugo La Malfa, entrambi sostenitori di un forte rinnovamento del sistema politico italiano.
Il “compromesso storico” doveva servire alla legittimazione del PCI potendo rendere possibile un’alternanza ed una alternativa anche nella vita politica italiana.
Si prospettava una soluzione di tipo tedesco: negli anni ’60 in Germania(RFT) vi era stata una “grande coalizione” tra democristiani e socialdemocratici la cui conclusione fu una serie di governi a guida socialdemocratica.
I governi Andreotti (DC) che si formarono dopo le elezioni del 1976 ebbero, in un primo momento l’astensione di tutti i partiti dell’arco costituzionale (DC, PCI, PSI, PSDI, PRI, PLI) che successivamente, tranne i liberali che si espressero contro, tramutarono tale voto in voto favorevole.
A tale esperimento si opposero numerose forze, sia palesi, sia occulte, tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale.
La morte di Moro comportò la fine dell’esperienza della solidarietà nazionale e si assistette alla trasformazione dello scenario politico italiano.
Il ruolo riformatore dei comunisti italiani venne di molto ridimensionato(il PCI venne rimandato all’opposizione) e si affacciò nel panorama politico italiano l’on. Bettino Craxi il cui ruolo di “ago della bilancia” fruttò per tutti gli anni ’80 una notevole rendita di posizione.
Durante i cinquantacinque giorni del sequestro ci fu il dibattito e lo scontro tra la linea della fermezza e la linea favorevole alla trattativa: fu giusto non trattare, fare altrimenti sarebbe stato come legittimare, rinforzandole, le Brigate Rosse; ciò che è da condannare furono i ritardi e le omissioni che avrebbero potuto portare alla salvezza del Presidente democristiano.
Ancora oggi attorno al caso Moro esistono numerosi ed irrisolti misteri.
Non si sa neppure e non sembra, quindi, giusto esprimersi al riguardo nulla di preciso a riguardo della veridicità delle lettere inviate da Moro durante la prigionia.
Probabilmente ha ragione Alessandro Natta, anche se ciò può apparire di un grado di cinismo molto elevato, quando dice che la grande sfortuna di Moro, la cui sorte era ormai stata decisa al momento del rapimento, fu quella di non essere rimasto ucciso in via Fani, seguendo, così, il truce e tragico destino del maresciallo Oreste Leonardi e degli altri agenti della scorta.
Sarebbe ora di poter trovare la verità conclusiva del caso Moro, appurando la verità e trovando tutti i responsabili di tale efferato atto di barbarie.
Aldo Moro e le altre vittime hanno il diritto di poter riposare in pace e gli italiani di conoscere la verità : lo sviluppo democratico dell’Italia non può avvenire mantenendo tali scheletri negli armadi.
Di Aldo Moro resta, come lo definì Papa Paolo VI, il ricordo di “un uomo mite e buono”, il cui pensiero politico è ora più che mai attuale ed utile all’Italia democratica e repubblicana.